I rendiconti sui risultati delle gestioni patrimoniali e sui rendimenti dei fondi negli ultimi tempi difficilmente hanno deluso i destinatari. Del resto al giorno 26 u.s. l’indice globale delle azioni in valuta locale presenta un progresso rispetto all’anno precedente del 17 per cento. Il dato è ugualmente positivo per il 25 per cento rispetto a tre anni prima e – nonostante la crisi del 2008-2009 – per il 13 per cento rispetto a cinque anni prima. Insomma, i mercati azionari negli ultimi anni hanno reso bene.
Lo stesso se rivolgiamo l’attenzione alle obbligazioni. A cinque anni l’indice dei titoli in Euro presenta un saldo attivo del 33 per cento, del 16 per cento a tre anni e dell’11 per cento a un anno. Anche allargando la misurazione ai risultati dell’obbligazionario a livello globale otteniamo dati positivi.
I rendiconti con risultato positivo, specie se abbondante, producono spesso sull’investitore che li riceve l’effetto di confermare nelle scelte effettuate e di placare le curiosità e i dubbi. Ma un risultato positivo non è di per sé un indice sufficiente di buona gestione dei risparmi accumulati.
Occorre innanzitutto richiamare una semplice regola, che è quella del paragone tra il rendimento di un investimento e quello del suo benchmark di mercato. Se investo in azioni europee ed ottengo il dieci per cento, il rendimento della gestione è buono se l’indice delle azioni europee, comprensivo dei dividendi distribuiti, è pari al dieci per cento o a qualcosa di meno. Se fosse pari al dodici per cento, ad esempio, ne andrebbe dedotto che ho lasciato al mercato – o al gestore – il due per cento del mio investimento.
Quale è il benchmark appropriato cui paragonare il rendimento dei miei investimenti?
Esposta questa semplice regola di analisi, occorre dire che siamo ancora alla superficie. E’ infatti necessario valutare quale esposizione al rischio è stata presa per ottenere il risultato.
Una prima risposta la può fornire l’analisi della volatilità del mio portafoglio, ed il paragone con la volatilità del benchmark. Senza entrare in dettagli tecnici, molti sistemi di controllo del rischio – anche ad altissimo livello – si fondano sull’analisi della volatilità.
E tuttavia questo ancora non basta. E’ ormai esperienza comune degli ultimi anni che i momenti di forte crisi sono caratterizzati sia da forti e repentini cambiamenti della volatilità dei diversi asset, sia da forti cambiamenti delle loro correlazioni. Cosa significa?
Significa innanzitutto che se il mio portafoglio è oggi poco volatile, potrebbe diventare assai volatile domani. Significa inoltre che la diversificazione degli investimenti che ho applicato – per fare un classico esempio, parte in obbligazioni e parte in azioni – potrebbe non avere il classico effetto di smorzare i ribassi. Potrebbe anzi amplificarli.
Per non parlare della presenza in portafoglio di prodotti o strumenti caratterizzati da leva finanziaria. Molti comparti Sicav, ad esempio, investono – magari in piccola misura – in strumenti derivati con effetto leva. In ogni caso questi derivati, anche ove non siano congegnati con effetto leva, sono emessi da banche e potrebbero ampliare il rischio sistemico.
Insomma, una buona gestione di portafoglio non può essere fatta senza smontare, uno per uno, tutti i prodotti e gli strumenti. Per comprenderne a fondo la natura, per valutarne il rischio di controparte, per valutare in che modo potrebbero essere impattati da un certo tipo di crisi economica o finanziaria piuttosto che da un altro.
Detto tutto questo non abbiamo ancora valutato quanto sia adeguato il livello di rischio assunto rispetto alle caratteristiche patrimoniali, economiche e psicologiche dell’interessato. In che misura valga la pena assumere rischio, non in astratto, ma nel concreto della vita dell’investitore.
La protezione del portafoglio vale più del rendimento. E grande importanza deve essere attribuita, oggi, anche alla solidità delle banche presso cui si detiene il proprio risparmio.