Secondo un’indagine di mercato pubblicata lo scorso Novembre, le famiglie italiane “private” – ossia quelle con una ricchezza finanziaria superiore a 500’000 Euro – sono 615 mila e detengono ricchezza finanziaria per 900 miliardi.
Il quarantatre per cento di questa ricchezza è investita presso gli ordinari sportelli bancari, il nove per cento tramite promotori finanziari, il rimanente quarantotto per cento – la metà del mercato – tramite strutture di private banking.
Il private banking accredita se stesso per l’elevata qualità della consulenza prestata ed è infatti riservato ad una clientela in grado di conferire masse importanti. Ma questa qualità c’è davvero?
La realtà è assai articolata, con operatori italiani e stranieri, società controllate dalle primarie banche e piccoli istituti specializzati. Assai articolata è anche l’offerta di servizi di consulenza, che vanno dalla semplice asset allocation, alla consulenza fiscale e successoria, alla pianificazione finanziaria, ecc. Questa complessità non consente certo una misurazione della qualità.
Per quanto riguarda l’asset allocation, tuttavia, la stessa indagine offre indicazioni interessanti: si tratta della composizione media della “torta” degli investimenti dei clienti.
L’asset allocation è articolata in otto categorie: assicurazioni, fondi, gestioni patrimoniali, azioni, titoli di stato, obbligazioni corporate, obbligazioni bancarie, liquidità. E desta alcune perplessità.
Innanzitutto va detto che la stessa articolazione delle categorie è realizzata dal punto di vista “interno” del sistema bancario, in quanto ha riguardo ai veicoli di investimento più che al sottostante degli investimenti stessi. Infatti le gestioni assicurative, i fondi e le gestioni patrimoniali investono a loro volta in azioni, titoli di stato e obbligazioni in genere, sicché la reale esposizione ai mercati finanziari non risulta.
Salta all’occhio poi l’elevata quota di attivi “complessi”, caratterizzati frequentemente da costi impliciti elevati: la somma dei prodotti assicurativi del ramo vita, che sono il 20%, dei fondi e delle gestioni patrimoniali, che sono rispettivamente il 6,4% ed il 16,6%, raggiunge quasi la metà degli investimenti.
Inoltre è scarso il peso delle obbligazioni corporate non bancarie, lo 8,1%, mentre i titoli di stato pesano per il 15% e le obbligazioni bancarie per il 14%. Vien da pensare che le obbligazioni bancarie siano in buona misura titoli proposti perché emessi dalla casa – o dalla banca controllante – e pertanto in forte conflitto di interessi.
Infatti il legame tra bilanci bancari e titoli di stato consiglierebbe che le obbligazioni corporate non bancarie fossero pesate maggiormente, mentre nell’indagine risultano pari a neppure un terzo delle altre.
Assai basso è il peso dell’azionario, pur assumendo che la quota presente tra fondi e gestioni patrimoniali incrementi il 6,4% detenuto direttamente. Questo corrisponde all’attitudine media dell’investitore privato italiano. Forse però non corrisponde – l’indagine è riferita ad un ottimo periodo per i mercati azionari – all’asset allocation migliore.
Infine è assai elevata, il 13,5%, la quota della liquidità. Il cliente medio ha dunque circa duecentomila Euro non investiti. Commenti anche autorevoli spiegano che si tratta della prudenza degli investitori o della loro volontà di avere risorse pronte “per cogliere le occasioni”. Ma allora un investimento in obbligazioni ben selezionate potrebbe servire allo stesso scopo nella maggior parte dei casi e sarebbe meglio remunerato. Viene anche qui da pensare che in qualche misura pesi l’interesse alla raccolta diretta delle banche stesse, nella migliore delle ipotesi tramite conti ad elevata remunerazione e però vincolati.