Il principale quotidiano finanziario nazionale dedica una copertina al problema pensioni. L’occasione è data dall’ormai vicina applicazione di nuovi – meno favorevoli – coefficienti di trasformazione.
I coefficienti di trasformazione in rendita sono uno dei due fattori dell’ultima delle moltiplicazioni da cui dipende la nostra pensione: trasformano i contributi accumulati e rivalutati durante l’attività lavorativa in una rendita pensionistica. Essi rispondono alla domanda: quanto si può distribuire del montante accumulato perché esso non si esaurisca prima della morte del beneficiario? Oggi occorre garantire rendita per un tempo più lungo.
La revisione dei coefficienti era stata stabilita dalla legge Dini, nell’Agosto del 1995, per l’anno 2005. E’ stata rinviata al 2010, introducendo però una norma che ne impone aggiornamenti triennali.
Il “taglio dei coefficienti” produrrà effetti di riduzione dei trattamenti pensionistici in misura varia a seconda dei casi. Per ora l’impatto è compreso all’incirca tra uno e quattro punti percentuali in meno di rendita pensionistica.
Molto si è discusso negli scorsi anni sull’opportunità di questa revisione i cui fondamenti logici appaiono tuttavia poco discutibili. E’ rimasto invece più in ombra l’altro fattore della moltiplicazione: il montante accumulabile. Con l’introduzione del regime contributivo esso dipende a sua volta direttamente da tre fattori: il reddito prodotto in tutta la carriera lavorativa, l’aliquota contributiva applicata allo stesso e – qui sta il punto per cui la crisi economica coinvolge tutti – la variazione del PIL. I contributi versati nell’anno T sono capitalizzati al termine dell’anno T+1 sulla base dell’andamento del prodotto interno lordo. E così ogno anno. Per la precisione l’articolo 1 comma 9 della legge 335/95 (legge Dini) recita: “Il tasso annuo di capitalizzazione è dato dalla variazione media quinquennale del prodotto interno lordo (PIL) nominale, appositamente calcolata dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), con riferimento al quinquennio precedente l’anno da rivalutare.” Posto che il PIL nominale, calcolato a prezzi correnti, comprende comunque l’inflazione, rimane ben possibile una serie di anni con coefficienti di capitalizzazione del montante assai bassi, nonostante il meccanismo ammortizzatore della media quinquennale.
In buona sostanza, se l’economia cresce si rivaluta il nostro montante e, con esso, sale la nostra pensione. Se l’economia incontra gravi recessioni o prolungate stagnazioni il montante non si rivaluta.
Per molte persone, inoltre, la recessione comporta la perdita – almeno temporanea – del posto di lavoro o, nel caso dei lavoratori autonomi, una riduzione del giro d’affari e del reddito. Questo si traduce in una diminuzione della contribuzione complessiva, che non potrà essere annullata o mitigata da una successiva normalizzazione dei redditi, come poteva avvenire con il sistema di calcolo retributivo.
Naturalmente tutto questo ha una sua logica: non si può richiedere ad un sistema paese impoverito di fornire prestazioni pensionistiche invariate. Vengono coinvolti però importanti meccanismi di distribuizione del reddito, ad esempio a favore di chi gode di un posto fisso e di una buona capacità di contrattazione collettiva rispetto a chi non ne gode. Oppure a favore di chi ha risorse – e competenze – per costruire una integrazione pensionistica.
Riguardo a quest’ultimo punto vi è un ampio ventaglio di scelte. Innanzitutto tra il risparmio autonomo da un lato ed i prodotti di integrazione previdenziale dall’altro. Poi – all’interno dei secondi, con tutte le loro complessità fiscali, e con i loro diversificati costi impliciti – la possibilità di mutare nel tempo le linee di investimento utilizzando eventualmente i cicli economici come fattore positivo.
La capacità assicurativa dello Stato, purtroppo spesso mal spesa in passato, indubbiamente fa un passo indietro. Ed ognuno è chiamato ad una maggiore responsabilità per il proprio futuro.